La raccolta di strumenti extraeuropei offre una panoramica delle culture musicali africana, indiana, medio ed estremo-orientale. Essa rinvia anche alla rete di rapporti commerciali che dal porto di Trieste si diramava, nel secondo ’800, lungo le rotte navali verso il Levante, verso il sud del Mediterraneo e da lì, attraverso il canale di Suez, fino all’Oriente più lontano.
Molti fra gli strumenti esposti appartenevano alla raccolta di Carlo Schmidl e denotano da parte sua una curiosità quasi pionieristica nell’ambito degli studi sugli strumenti musicali extraeuropei, che a cavallo tra ’800 e ’900 erano solo agli inizi.
Il percorso espositivo procede in senso antiorario, seguendo un’ideale rotta verso i Paesi del Sol Levante. Partendo dagli strumenti arcaici provenienti in prevalenza dall’Africa, si attraversano la grande tradizione musicale arabo-persiana e quella del subcontinente indiano, fino a raggiungere le culture musicali dell’estremo Oriente, rappresentate in gran parte da strumenti cinesi e dalla loro evoluzione nel passaggio al Giappone.
L’arpa africana
L’arpa africana ha una storia millenaria che risale all’antica civiltà egizia. Esiste in infinite varietà ed è presente nelle tradizioni di moltissimi popoli. Accompagna principalmente il canto, veicolo di storie o preghiere e invocazioni alla divinità. Le decorazioni antropomorfe che spesso la arricchiscono, come nel caso dell’arpa esposta in vetrina, ricordano proprio questo legame con il divino.
La zanza
Diffusa in molte regioni dell’Africa centrale, la zanza è nota con diversi nomi a seconda del suo luogo di origine: sanza, mbira, kalimba, ulimba, pokido… In Europa è chiamata thumb-piano, pianoforte a pollice, perché viene tenuta in mano dall’esecutore, che usa i pollici per far vibrare le lamelle pizzicandole. La si trova anche in America centro-meridionale, dove è arrivata con le deportazioni di schiavi dall’Africa. È costituita di lamelle intonate in metallo o in fibre vegetali elastiche in numero variabile, fissate da un lato a un risuonatore, fatto dei materiali più disparati: legno, terracotta, carapaci di tartaruga, latta, zucche essiccate di diverse forme e dimensioni.
Il sitar
Cordofono a pizzico tipico della tradizione indiana, nel corso dei secoli ha subito molte variazioni difficilmente rintracciabili e ha assunto definitivamente la sua forma attuale nel corso del XX secolo. Si tratta di una specie di liuto a manico lungo con uno o due risuonatori, fatti oggi generalmente di zucche essiccate. Ha sei o sette corde principali e svariate corde di risonanza, tutte in metallo, che poggiano su due ponticelli in corno di cervo o osso di cammello situati vicini sulla tavola armonica. Sul suo lungo manico presenta numerosi tasti in metallo, curvati in modo da consentire all’esecutore di scivolare con il dito per ottenere le tipiche sonorità ricche di microtoni e glissandi.
Il sarangi
Il sarangi è la viola tipica dell’India del Nord, utilizzato come strumento solista o associato alla voce o ad altri strumenti oppure in accompagnamento alla danza. È costituito di un unico pezzo di legno, di fattura e forma piuttosto tozze. Una correggia in cuoio rinforza la tavola armonica in pelle di capra nel punto di appoggio del ponticello in osso a forma di elefante. Viene tenuto in posizione verticale, appoggiato su una gamba. Ha tre corde principali in budello e circa 35 corde di risonanza in metallo.
L’incerta etimologia del nome parrebbe derivare da seh (=tre) e rang (=colori), in riferimento alle tre corde melodiche di cui è dotato, oppure da sau (= un centinaio) e rang (=colori), a sottolineare la sua versatilità nell’adattarsi alla voce umana, la sua flessibilità nell’intonazione, le sue considerevoli capacità espressive.
La p’i-p’a
Già noto in Cina a partire dal IV-V secolo d.C., in epoche successive divenne strumento di corte e fu utilizzato durante i banchetti tanto come strumento solista, quanto affiancato ad altri strumenti. L’esecutore lo tiene in posizione verticale, appoggiandolo a un ginocchio e pizzica le quattro corde metalliche per mezzo delle unghie o di plettri applicati alle dita. Tra i molti tasti, quelli posti sul manico hanno una forma tale da consentire alle dita di scivolare fra un tasto e l’altro, ottenendo il tipico effetto glissato. Il manico è spesso abbellito da un pipistrello intagliato, animale che nella tradizione cinese rappresenta simbolicamente la fortuna.
Il si-hu
Appartiene alla grande famiglia degli huqin, le fidule ad arco della tradizione musicale cinese. Nelle sue varie forme, a due o quattro corde, manico più o meno lungo, cassa cilindrica o esagonale, è comunque uno strumento di probabile derivazione mongola, comparso in Cina intorno all’anno 1000. Il si-hu è la versione a quattro corde del più diffuso er-hu, che ne arma solamente due. La tavola armonica è spesso in pelle di pitone, ma la si può trovare anche nella sua versione lignea. Il fondo rimane aperto in quasi tutti i modelli. L’archetto passa attraverso e non sopra le corde, costringendo l’esecutore a imprimere la pressione della mano non solamente verso il manico, ma anche in senso opposto.
Il qin
Antichissimo strumento della tradizione musicale cinese, legato ai rituali e alle cerimonie della corte imperiale, veniva spesso usato dentro le mura del palazzo insieme ad altri strumenti o abbinato alla danza e al canto. Appartiene alla famiglia delle cetre lunghe e presenta tavola armonica arcuata e fondo piatto, che simboleggiano il cielo e la terra. Uniti all’esecutore che suona, essi costituiscono l’immagine dell’armonia esistente fra l’Uomo, il Divino e il Creato. È dotato di un solo ponticello su cui passano le sette corde in seta ritorta. Viene suonato pizzicando le corde con una mano, mentre le dita dell’altra scorrono sulle corde, ottenendo un caratteristico effetto di glissando.
Il koto
Il koto giapponese e il kayagum coreano derivano dal qin cinese.
Il koto si differenzia dal suo antenato cinese soprattutto per la presenza di numerosi ponticelli mobili che l’esecutore sposta per ottenere di volta in volta l’accordatura desiderata. Le corde risultano così divise in due porzioni distinte. L’una viene pizzicata per mezzo di tre plettri in avorio, osso o bambù, infilati su tre dita della mano destra, mentre la sinistra preme o scivola sull’altra parte della corda. Insieme al shakuachi (il tradizionale flauto giapponese) e allo shamisen, il koto costituisce l’ensemble da camera tipico del genere sankyoku.
Šo e šêng
Anche lo šo, come la maggior parte degli strumenti della tradizione giapponese, proviene dalla Cina, dove troviamo il suo antenato, lo šêng. Si tratta di un organo a bocca, ad ance libere, fatto di una cassa in legno laccato che funge da serbatoio dell’aria, nella quale vengono infilate 17 canne di bambù di diversa lunghezza, posizionate in maniera simmetrica in modo tale da assomigliare idealmente alla forma di una fenice ad ali chiuse. L’altezza dei suoni non dipende dalla lunghezza esterna di queste canne, che ha funzione puramente estetica, ma dalla lunghezza che esse hanno al loro interno. Alcune canne sono addirittura prive di fori e sono perciò mute.